I clicli – Occidente

ciclo OCCIDENTE

 – INVITO AL DISORDINE, A UNA VITA ALTRA

L’immaginazione non prese il potere, dice un titolo di Franco Mulas: sarebbe cosa ben strana se fosse avvenuto il contrario in un mondo che segna confini a tutto e dove la fantasia ha il suo pezzetto di terra ove esercitarsi « liberamente » a patto di non pretendere di esser qualcosa di diverso, altro da sé, magari « rivoluzione ». Così l’immaginazione resta applicabile all’arte, come ingrediente dell’estetico si compra e si vende senza particolari difficoltà, la mercificazione dell’immagine è la condizione prima della sua scorrevolezza sociale. Il potere non ha mai avuto nulla da spartire con l’immaginazione, se non per il pagamento dei suoi servizi colorati e suggestivi; magari anche leggermente inquietanti, ma sempre indicibilmente « per bene ».

Fuori da queste regole, il « costruire immagini » diverrebbe un fatto eversivo, una dinamica incontrollabile capace di rompere quel tipo di equilibrio di cui il potere, in quanto massimo momento statico, è l’indiscusso garante. Mulas, presa coscienza della ilieggittimità dell’immaginazione – o, meglio, della sua improbabilità sociale – la toglie decisamente di mezzo e gioca conI,tanta freddezza ed acidità sul presente da farcelo scoprire paurosamente deserto d’abbellimenti armonici, di fantasie sentimentali. La cruda realtà dell’oggettivazione a tutti i costi, del gesto senza possibile storia, dell’immagine ridotta spietatamente al ruolo di « istantanea », ricade con tanta pesantezza sul quadro da renderlo terrificante nel momento in cui si pone come – o pretende proporsi come – sublimazione estetica dei reale.

Se v’è un modo concesso all’arte per negare se stessa come momento legittimante della realtà che il sistema ci concede, ebbene questo modo è quello che Mulas ci mostra. Belli e ben fatti quanto si può dire, obbedienti all’iconografia societaria come più non si saprebbe immaginare, specchio di un paesaggio urbano ed extra-urbano totalmente in armonia coi canonì dei più divulgato « vedere », i dipinti di Mulas costituiscono un vero e proprio invito alla nostalgia dei disordine, ad una vita « altra » che non può non scorrere « al di fuori » di quei deserti di marmo e di violenza consumata che l’artista ci mostra. Per ora il potere è al di qua dei N mmag i nazione e ci mostra il suo volto di macchina che ha fermato il tempo sull’immagine di se stessa- passato e presente si fondono nei simboli più scoperti dell’oggi senza lasciar trapelare speranza di un qualsiasi futuro. Un’arte, insomma, quella di Mulas,che nega la tradizionale consolazione della « promessa», che testimonia dei rifiuto di un possibile domani a questo oggi inchiodato alla sua immagine di violenza. Per fare riferimenti in qualche modo pretestuosi, dirò che ho trovato affinità ed atteggiamento nel Cremonini delle « spiagge » più allucinate e disperanti, nel Boschi degli stadi deserti (ma forse più rabbrividenti e meno spietatamente « vuoti » d’umanità di questi oltre che nel Recalcati più freddo o in Jardiel, citazioni, queste, assai per tempo avanzate da Dario Micacchi. Sono nomi che indicano indubbiamente personaggi diversissimi, così come Mulas è diverso da loro, ma che suggeriscono l’ipotesi di un’area di lavoro che accomuna artisti italiani ed europei nel racconto della rabbia gelida, della rivolta che trova nella sua quotidiana sconfitta ii « desiderio » della rivoluzione. Ho avuto occasione di scrivere che per Mulas conta più la testimonianza di una tensione a[fatto che il fatto in sé, che viene immediatamente superato proprio nel suo inesorabile fermarsi al presente dove « l’immaginazione non ha preso il potere ».

Di fronte alla crescente desolazione delle nuove opere di questo giovane, cariche dei silenzio degli spazi di pietra e dei simboli così poco « umani » di una violenza da sempre e per sempre compiuta mi sembra che anche il discorso critico, per aderire in qualche modo all’immagine, debba sottrarsi alla narrazione. Tutto è già stato raccontato, in queste opere, nulla ha una « sua » storia che possa continuare Non l’ha il poliziotto, inconoscibile esecutore dell’ordine basato sul silenzio delle cose; non l’ha la vittima, « fermata » da Mulas nel gesto impossibile della fuga, non l’ha il negro che spartisce la corrosa sorte dei simbolo socialmente accettato – e quindi pietrificato – della sua libertà. Queste maschere dell’oggi sono l’unica immagine dei domani che un pittore come Mulas può offrirci. Le statue continueranno a cadere, i poliziotti ad uccidere, le vittime a fuggire senza scampo almeno se si resta in quella realtà che ci è data dal sistema, dove l’immaginazione non ha preso il potere. Arriveranno cartoline da Detroit sempre uguali, gli uomini saranno sempre tutti indesiderabili, i morti dell’autostrada porteranno i colori dei più lucido Weekend, ed ogni notte di maggio sarà la.stessa notte di polizia.

Ma quello di Mulas non è un discorso disperato: anche la disperazione si ghiaccia in questi quadri senza storia, si fa essa stessa incredibile, rimanda ad altro, credo al suo contrario che non è qui e che lo spettatore, non il pittore coi suoi mezzi socialmente « funzionali », può davvero immaginare. Ecco il senso della provocazione che mi sembra il momento più credibile dei dipinti di Mulas, di una provocazione che è la sola alternativa al presente senza speranza, quindi « utopia », senso dei possibile che non accade perché le condizioni dei presente non lo rendono possibile, ma che potrà accadere se queste condizioni cesseranno di essere. Il presente senza storia di Mulas sarà sconvolto dal primo gesto rivolto al futuro, un qualsiasi gesto di vita che porti il segno dell’uomo di cui questo artista ci narra l’inaccettabile assenza.

Franco Solmi, Dal catalogo della mostra personale alla galleria « La Nuova Pesa », Roma, dicembre 1969.