Renzo Vespignani

Presentazione alla Mostra “Finzioni” Galleria Ca’ d’Oro, Roma

La luna cammina cammina

così ghiacciata. E senza la più piccola

ipotesi di sopravvivenza. Come è chiaro

che inutilmente il reale è simbolico.

Franco Fortini

Non vorrei rendere un cattivo servizio a Franco Mulas, ricordando la sua costante vocazione all’impegno politico e civile. Dati i tempi, qualche teologo del riflusso potrebbe aversene a male e scambiarlo per un pedante incarognito a sfogliare la realtà come un carciofo, certezza dopo certezza. Ma gli ultimi suoi quadri parlano di un naufragio, e dunque non sarà ozioso chiedere su quale nave l’autore fu imbarcato, e quali tempeste lo abbiano fiagellato nel braccio di mare compreso tra le scogliere del ’68 e le secche di questo 1985 catto-socialista: deserta battigia dove si raffigura intirizzito e coperto di sale. (Chi potrebbe essere, infatti, se non il pittore stesso, questo marinaio che ha mancato tutte le promesse, confitto come una polena nel mulinelli della bassa marea?).

Impegno è una brutta parola: evoca un rapporto impreciso e imprecisabile tra artisti e segreterie politiche, tra “pattuglie avanzate” di intellettuali e fantasmatiche masse popolari. E termine che fa pensare, irresistibilmente, al “darsi in pegno” o peggio, a consegnarsi come ostaggio per un acconto di potere. Un vero disastro, poi, gli equivalenti francesi éngage, éngagement, che sanno di arruolamento forzato come usava nelle marinerle del settecento, o addirittura di contratto mercenario per qualche guerra coloniale.

Eppure c’è un impegno – io l’ho vissuto – che è proprio l’opposto di questi generici pasticci. Come dirlo, ormai, senza rossore? Ci si può appassionare di un corteo con la stessa intelligenza estetica che è necessaria alla scomposizione cubista di una bottiglia. Correre dietro una bandiera può diventare “trauma” poetico. La libertà sulle barricate, dopotutto, non è una donna che si vorrebbe possedere?

Diciamo allora che Mulas ha sempre tenuto la politica nel suo studio, in posa, come una modella procace e desiderata, e traditora: da dipingere “al naturale”, interamente umana: e dunque non la pupazza di gomma abbigliata dagli uomini del Palazzo come una “reficolona”, ma creatura nuda, sferzata dagli idranti della polizia.

Così, a ripercorrere l’itinerario dell’artista, si scoprirebbe quanto poco realistico, e tanto meno iperrealistico, sia stato il suo lavoro; chè sempre, ai personaggi reali (calati in un concreto e magari banalizzante flusso di cronaca e storia) egli ha sovrapposto un “fantasina” ironico o crudele, o pietosamente stravolto: di carne e sangue, e tuttavia trascritto nel simbolo; e così interamente da non offrire certezza alcuna, ma Piuttosto i segni di oscure ferite della ragione e dell’inconscio.

Ed ora che le piazze si sono svuotate, l’artista regola i conti con le aspettative deluse, col tormentone della generale ed entusiastica resa alle dottrine antistoriche. Non sono conti facili: e ne fa fede questa mostra composta sui tempi di un adagio torbidamente chiaroscurato e solenne. Solenne, non funebre, chè Mulas non sa drappeggiarsi nel rancori e nel sarcasmo, e se parla della scomparsa di una vera tensione contro ostacoli veri, lo fa con struggente leggerezza, con peritissima eleganza: quasi il vuoto e la piattezza del quotidiano fossero la controparte naturale della gioia e del privilegio di esprimersi per segni e colori. Così la sua pittura appare sempre più satura di caldi umori e luci gloriose, un linguaggio cosi goduto, da trasformare la osticità delle immagini in festa, e scialo, e meraviglia. Tutt’altra cosa che piangersi addosso tra dozzinali risarcimenti dadaisti e sberleffi del gusto che rincorre il cattivo gusto; il sogno di una causa che tutti dicono perduta, si è trasformato per Mulas nel sogno di una cosa: cioè di una forma capace di raccontare una sconfitta come fosse una vittoria.

Ci sono artisti che sembrano forzati a dipingere, nel modi e nei “travestimenti” più impensati, un’unica idea della vita. Cosi malgrado le profonde e sussultorie evoluzioni del suo linguaggio, Franco Mulas è sempre alla ricerca della sua pietra filosofale: la materia che scolpisca in carne e ossa le creature della sua fantasia; l’immagine adatta a condensare in una rappresentazione “cruciale” le oscure pulsioni e i molti scoramenti del dipengere.

A ben vedere egli non si avventura in un paesaggio affatto dissimile da quello dove, anni fa, collocava i suoi poliziotti catafratti e il suo Gilles di porcellana. Con meno fumo anarchico, forse – e con una lucidità diffidente che sembra ridurre gli eventi in polverio – si aggira nello stesso labirinto emotivo-simbolico dei suoi autoritratti in cerca d’identità. Oggi, come allora, una pittura ribattuta come una barbarica corazza di rame è l’estremo riparo, la maschera muta dell’autore.

Entriamo dunque in questa misteriosa regione: la natura è un velario ingannevole, come se tanta freschezza di sorgenti, e il loro zampillare dalla roccia, quasi sangue sotterraneo, fossero la proiezione di una lanterna magica. E’ un giardino incolto, o una gola sperduta mai toccata dall’uomo? Il cielo, insieme a una luce d’acquario, distilla un madore velenoso; non è un paesaggio rapsodico, dunque, “immaginato dall’anima”, ma il singolare prodotto di una difficile combinazione tra ragione, abbandono dionisiaco e timore claustrofobico. Una regione infernale che Mulas esplora prontissimo a censurare ogni tentazione effusiva.

Ed è strano come, senza compromettere la nitidezza della scrittura, la visione prenda forma sotto i nostri occhi con una inquietante ambiguità: queste rupi piene di anfratti muschiosi hanno l’incanto del “giardino romantico”, e insieme la sinistra cupezza delle foreste vergini. E dunque, per un attimo, ti sembra di indovinare una gioia schietta del pittore, una calma visionarla sul punto di sciogliersi in dolcezza, in un respiro a pieni polmoni. Per un attimo, che subito qualcosa si contorce e striscia nell’erba, qualcuno, non visto, appena uscito dal quadro, ha lasciato indefinibili orme nel fango delle marane: e tutta la superficie dipinta s’incendia di metafore e forme allegoriche, al punto che l’immaginazione sembra soffrirne, quasi per congestione romanzesca. Il sentimento che un dio abita in questo luogo ed ha conferito alla natura una umana nobiltà, è illusione fuggevole: il paesaggio di Mulas è un contenitore che si va colmando sotto i nostri occhi di pensieri bislacchi, di magie, di fantasiosi e orridi divertimenti, tra l’inferno di Bosch e l’isola dei morti di Bócklln. Materiali del sogno che senza scampo sono destinati alla disgregazione.

Dunque questa natura -scorporata-, è un sipario che sta per aprirsi su un’altra plaga infuocata e deserta. Mulas lascia intravvedere il suo inferno privato, ricorrendo ad un fantastico repertorio di inganni materici e atmosfere allusive. Una sapienza illusionistica impiegata a piene mani, senza remore o pentimenti o moralismi: quasi avesse scoperto che il dipingere è anche questa allegria di “apparenze”. Forse non gli farà piacere sentirselo dire: ma sa benissimo, in cuor suo. quanto sia vicino all’artificio.

All’artificio, non alla simulazione: che questi suoi quadri non sono bugie ben raccontate. Piuttosto spericolati esercizi di anacronismo. Io credo che la massima aspirazione di Mulas non sia quella di restituire un difficile vissuto, ma di operare e divagare con lui, cesellando, addensando e vanificando la materia. Di conseguire, insomma, la “insincera” sincerità di Borges.

Dunque sarebbe sbagliato considerare queste opere come pure invenzioni rettoriche. In anni in cui l’arte Ë spettrale, Mulas persegue, paradossalmente, un obbiettivo “in positivo”: rendere a tutto tondo – quasi scultura in uno spazio reale – l’idea di una assenza o privazione, il vuoto e il silenzio che si sono prodotti in una generazione disarcionata dalle sue illusioni. E allora queste lente risacche orlate d’oro o di fango, la roccia grigia i cieli di sasso, vogliono essere fotografia “obliqua” del nostro errare sulle rovine di una qualche patria in fiamme.

E come resistere alla tentazione di vedere in trasparenza, dietro l’immagine ricorrente della cascata, quella di una barricata? Quasi una traduzione da Victor Hugo: l’ampia barricata si spiegava come una cosa dirupata… Le sue caverne, le sue escrescenze, i suoi porri e le sue gibbosità facevan la smorfia, per cosi dire, e sogghignavano in mezzo al fumo … Muro immobile dietro al quale non si scorgeva nessuno e non si sentiva nulla: non un grido, non un rumore. non un alito. Un sepolcro: in questi quadri il silenzio è acutissimo.

Poi non sarà difficile rinvenire nell’impasto di fango e di erbe palustri, nel rigonfiamenti del terreno che sembrano prodotti da un talpa mostruosa, “cose” di non chiara provenienza ma in qualche modo a noi famigliari: pezzi di macchine, ossa, arnesi del mestiere, o addirittura lacerti umani? In ogni caso contorti e appiattiti e saldati tra loro dal fiato di una esplosione nucleare; tutti gli oggetti costruiti dall’uomo nel corso della sua avventura terrestre, e l’uomo stesso, incastonati in un magma vulcanico. E allora, perché non studiare queste immagini come stratigrafie di una falda alluvionale, incrostata di attese e bersagli fossilizzati?

Dicevo di un naufragio: l’isola sulla quale è stato gettato Mulas, in realtà, è una zattera di detriti; su questa, in precario equilibrio, con un gioco arcimboldesco di incastri e metamorfosi, “disegna” la mappa di un nuovo continente; che è la forma estremamente traslata del suo disperato contenutismo.

E dunque bisognerebbe saggiare comparativamente il suo “sistema fantastico” con i contenuti che lascia intravvedere. Ma questa è partita del critico: a me, pittore e amico, preme invece rispettare il non senso di questo universo che a volte sembra chiuso in un angusto scantinato, e a volte s’allarga fino al ciglio della terra, dove gli oceani precipitano nel vuoto, con un trapasso appena percettibile da una materia a un’altra, da una luce che è luce ad una luce che sembra nutrita di oscurità: quasi il tessuto pittorico da cristallino e aurorale si facesse a un tratto – per una brusca decelerazione della materia – di durissima selce.

Allora converrà arrestarsi sulla soglia della grotta – lo studio del pittore – obbedendo agli altolà delle strane sentinelle che ne costudiscono i segreti; un cane fatto di luce lunare, un violinista di travertino, monolite affondato nella palude. Sfingi che fissano il vuoto oltre e attraverso di noi. Quale dolore o vergogna cela l’arrista nel suo rifugio? O la sua tana è vuota?

L’arte opera necessariamente per simboli e metafore; vive di irrealtà visibili. Penetrarne gli enigmi equivale a separarne i tessuti sul marmo dell’obitorio. Contentiamoci dunque di ricevere da Mulas il suo dono inspiegabile: egli ha sognato un mondo resistente, fermo nel tempo, ubiquo, ben connesso in tutte le sue strutture; egli è il sognatore che sa di sognarsi, e scopre che le forme assurde del suo sogno sono lui.

Renzo Vespignani, 1985