Antonio Del Guercio

Presentazione Mostra-Galleria “Ricerche”

La ricerca,di Franco Mulas prese le mosse, nei primi anni Sessanta, da una linea di figurazione critica fortemente caratterizzata in senso esistenziale. In tale caratterizzazione, ebbe il suo posto un dialogo a distanza con l’esempio di Francis Bacon: dialogo che non si svolse al livello d’una assunzione delle radici vangoghiane del pittore inglese, ma a quello d’una meditazione della sua proposta di una rappresentazione partecipante, coinvolgente, d’una condizione umana nella quale solitudine e socialità, destino individuale e rapporti con gli altri, s’incrociano rivelando l’onnipresenza d’un tessuto conflittuale.

Seguì poi un confronto serrato con l’iconosfera urbana, in un clima che, pur segnato da una certa convergenza con i nuovi linguaggi vulgarian elaborato nell’ambito dell’arte pop americana (ad esempio, Rosenquist), si risolveva quasi in aspetti di iperrealismo ante litteram. In questa fase, il riferimento a una mediazione meccanica tra realtà e pittura (mi riferisco in modo particolare alla mediazione fotografica) non dava luogo – come in altri casi, italiani o stranieri – ad una mimesi dell’immagine fotografica. Il tipo di oggettualità che Mulas andava allora cercando e concretando teneva conto, piuttosto che della soluzione che la foto dà alla rappresentazione, della qualità di emergenza improvvisa che è connaturata all’istantanea. In tal modo, in piena ondata oggettualistica (e su questa ondata intervenendo con personale apporto) Mulas rivendicava il margine specifico e insostituibile del far pittura di fronte al dato fotografico: questo, assunto per la violenza inaspettata e rapida con la quale dà conto della realtà, non interveniva dunque come segnale d’una crisi delle ragioni sostanziali del far pittura di fronte al dato fotografico: questo, assunto per la violenza inaspettata e rapida con la quale dà conto della realtà, non interveniva dunque come segnale d’una crisi delle ragioni sostanziali del far pittura, come in altri artisti accadeva.

Si comprende cosÏ che questa spinta di Mulas verso l’oggettività, proprio perché era assai attenta a non cedere le armi della pittura (direi addirittura i suoi poteri, e lo direi appunto per provocare la sciocca ironia di coloro che si sforzano di mandare la pittura al disarmo), potesse accogliere nuove intenzioni.

Queste si manifestarono in rapporto al nodo decisivo del ’68. Di fronte al quale, Mulas sentì di non poter continuare a dar conto – sia pure in modo non passivamente mimetico – d’una fenomenologia macchinista e urbana. In quella qualità d’improvvisa emergenza drammatica ch’egli aveva colto nel documento fotografico, giaceva implicitamente la possibilità di avviare un più complesso discorso emblematico.

In altri termini, gli eventi del ’68 potevano essere assunti non al livello d’una descrizione, sia pure allucinata e densa, ma al livello dell’emblematismo; ossia, della concentrazione di più significati conflittuali sulla stessa tela, in modo da trascrivere nel discorso pittorico il significato molteplice di quella fase storica, culturale e umana: eventi, dunque, trascelti in modo da comparire non come relazione d’una cronaca, bensì come momenti di verità già cristallizzati in simboli o in miti; i simboli, cioè determinati luoghi ricorrenti dell’imagerie sessantottesca, come incarnazioni dei messaggi emanati dai protagonisti del ’68, del loro progetto; e infine, altre cose, altri luoghi, altri simboli, come incarnazioni – stavolta – della reazione della soggettività dell’artista agli eventi. Se, a volte, questi diversi strati, nell’azione pittorica a caldo potevano risolversi in una giustapposizione, nelle opere persuasive di quella fase Mulas metteva capo a una proposta del tutto autonoma, tale da far spicco nel diramato contesto europeo della giovane pittura. Infine, tocca dire che questa fase gli giovava a rimettere in questione sia gli strumenti formali e di linguaggio sino allora elaborati, sia ad attivare in maniera nuova i nuclei fondamentali della sua posizione di fronte ai conflitti dell’epoca.

Voglio dire che non a caso, attraverso i passaggi che ho sommariamente evocato – e grazie ad essi – Mulas ora ritrova, con queste opere oggi a Torino, aspetti che già s’erano manifestati agli inizi del suo corso di pittore. A ben altro livello, s’intende, di maturità e di complessità. Si veda, ad esempio, come da “Vernissage” alla serie degli “Itinerari” e ad opere come “Super esposizione n. 2”, è posta la relazione dell’uomo singolo agli altri nell’artificialità e nella drammatica mistificazione degli scambi nel contesto urbano, e, al tempo stesso, com’è posta la reazione di quell’uomo a se stesso nello stesso contesto. L’analisi spietata d’un singolo corpo, la luce nella quale esso sta – variamente – rispetto a quella generale degli eventi, la sua collocazione spaziale e psicologica rispetto ad altre presenze di uomini o di cose o di scarne allusioni ad ambienti reali o simbolici: in tutto questo, l’originaria figurazione critico-esistenziale fruttifica del tutto fuori dall’orbita diretta o indiretta della soluzione baconiana, e raccoglie su di sé sia la strumentazione di tipo iperrealista (ed è ora, palesemente, una definizione di comodo), sia la capacità di flettere l’oggettività in emblematica complessità di significati.

Così Mulas, riducendo all’estremo il carico iconografico, concentra su un’apparizione, ancora una volta inaspettata, dell’immagine l’articolazione di un tempo non più istantaneo ma più solennemente doloroso – un tempo sospeso, vorrei dire – che impegna il riguardante a un corpo a corpo psicologico e mentale con nodi conflittuali di non immediato consumo, ma di lungo periodo.

Antonio Del Guercio, 1974