Il veggente del colore
“Spirito e Visione non sono vapori fatti di nulla:
ma organizzati e articolati sin nel minimo dettaglio
più di qualsiasi altra cosa l’effimera natura sappia generare.”
William Blake
Perduti, dentro l’incanto cromatico dei dipinti di Franco Mulas, è uno smarrimento raro a prenderci. Attratti, risucchiati quasi, dalla sua pittura vorticosa, nel magma enfatico dei colori incandescenti, capaci di formule inusitate, magiche: tinte siderali di un paradiso, attiguo però, alla realtà sorprendente della natura.
Iconografie dantesche e aurore boreali ruotano dentro un sistema infinito di orbite azzurre, sino a incrociarsi in fantasmagorie oltre i confini del possibile, in uno spazio che divora la sua stessa prospettiva per estendersi poi, in piani massicci come lastre di pietra, spezzate, alla fine, in frammenti pesanti. Schegge di tempo, istoriate di muschi preziosi, accatastate in una sorta di quarta dimensione, madre di prodigi inenarrabili quanto precisi, dove a volte la perdita dì centro pare minacci la sicurezza dell’equilibrio, a chi si affaccia al quadro.
Visioni: che sembrano pulsare, a volte, di un romanticismo antico, quale si avverte vibrare nell’impasto, ugualmente straordinario, delle cromìe di un Sarnuel Palmer, così vicino alla foga immaginaria del nostro Mulas.
Sembra che l’artista romano, come l’inglese oltre un secolo prima di. lui, sappia ben varcare la soglia che conduce alla Valley of Vision, ineffabile luogo interiore dove si illuminano quei paesaggi della mente che solo il colore è in grado di raccontare.
E del colore è indiscutibile veggente il Mulas, sapiente manipolatore di iridescenze ultraterrene, mescolate al profondo notturno di verdi e cobalti e turchini, intrisidi liquido oro: solare.
All’innocenza mistica del pittore britannico e dei suoi confratelli antichi – The Ancients – Franco Mulas, contrappone peraltro tutta la smaliziata ricchezza di una cultura più vecchia di cent’anni, ormai. I sogni, che proiettano l’orografia fantastica del suo personalissimo locus amoenus, non sono più i candidi ideal dreams della cerchia di Palmer, ma quei messaggi complessi, oltre che suadenti, già decifrati attraverso gli occhiali rotondi di Sigmund Freud.
Quando il profumo aspro della macchia minorchina sembra aleggiare sul rettangolo dipinto o quando le rupi dei monti Cimini si stagliano vere e dure sulla tela, anche quando, insomma, l’elemento paesistico si fa più convincente, il realismo di Mulas, “vedutista dell’inconscio”, è in verità sola apparenza: epitelio variopinto sopra un mondo nascosto nel mistero buio della corteccia cerebrale, pellicola sensibile, attenta a impressionare bagliori e sussuri di. quel mondo oscuro, nel nome di un colore che sa farsi lucore arcano, e ancora esibirsi verissimo di realtà.
Natura e metafisica si amalgamano allora, dentro la geografia fantastica dei Paesaggí di Franco Mulas, in una convivenza gioiosamente equilibrata, generosa di suggestioni nuove, moderne. Che affiorano, appena percepibili, sulla superficie cangiante dei dipinti, a spargere sulla visione protoromantica dell’Eden l’ombra sensuale di una sessualità indistinta, primigenia: folto boschivo di verdi selvatici che muove a mimare – vivo – il simbolo dell’eterno femminino, quando non è il bronzo dorato della roccia a ergersi virile nel mistero lussureggiante della vita.
Già alla morte del secolo scorso, la castissima Valley di Palmer si era mutata in Venusberg : Montagna di Venere dalle “erbe cupe e senza nome”, vestita delle malizie liberty di Aubrey Beardsley. Misticismi vittoriani e belletto simbolista scompaiono nelle tele di Franco Mulas, nettati dallo slancio di un Surrealismo gestito con sapienza prudente di fine millennio, a screziare le forme di un immaginario consapevole della Storia. Capace di un campo visivo che sa cogliere e filtrare lo spunto lontano del parossismo barocco, come le folli tinte romantiche di William Blake; respiro grande di cultura e pittura, che sa inalare le muffe policrome di Odilon Redon, insinuarsi tra le rocce metafisiche di De Chirico, appropriarsi spavaldo del tocco impressionista sino al guizzo dinamico dei futuristi.
Umori antichi e moderni, assimilati con finezza d’intelligenza e stillati con destrezza in un furore visionario sempre controllato, meticolosamente organizzato in forme e colori figli di una perizia tecnica solida del prodigio di una manualità che intimidisce e – nuovamente – incanta.
Giorgio Pellegrini, 1995