Maria Cristina Ricciardi

Schegge

… Il nome di Franco Mulas appartiene di fatto alla storia della pittura italiana del Novecento. Le sue visioni di alienanti weekend domenicali di una Italia in pieno boom economico, di reportage di allucinanti cronache dove l’attualità veste i panni, nitidi sino all’assurdo, della metamorfosi in atto, della persona ridotta a sagoma da tiro a segno, dello spettacolo degradato del corpo di un uomo “da niente”, autori tratto di una società lucidamente messa a nudo, riguardano ormai i repertori della cultura figurativa del nostro tempo. Nella stessa misura, possiamo anche dire che la storia del Novecento appartenga a Franco Mulas, perche la sua genesi culturale va cercata in quel versante figurativo della pittura italiana del dopoguerra, testimoniato dal lavoro di una generazione di pittori che ha amato guardare in faccia la realtà, pur con modalità e linguaggi a volte profondamente diversi. Una generazione, come ho già sostenuto, sicuramente ancora creditrice di maggiore chiarezza storiografica. Quello che in questo specifico va definito è cosa della realtà interessasse il pittore Franco Mulas, perche questo serve a comprendere come si arrivi alle opere di oggi, dove l’impegno ad essere un testimone della propria epoca che tiene stretto il rapporto tra la pittura e il mondo, non è certamente meno avvertito. Siamo lontani dal mistero, dalle inquietudini, dalle verità nascoste “da leggere fra le pieghe del reale”; anche da un certo tipo di esistenzialismo comune alla sua generazione. La realtà per Mulas è il tempo in cui egli vive ed il tempo non è una astrazione è una cosa vera, ha colori, profumi, forme, dinamiche. La realtà egli la misura sulle piccole e grandi cose che accadono non tanto per singolo comportamento quanto per una sorta di condizionamento sociale, assoluto e fagocitante; sui fatti, cioè, che incombono – ci piaccia o no – nella nostra quotidianità e la modificano fino a contaminarla nella sua stessa sostanza, alterandola nel suo aspetto, nelle sue apparenze. Questo valeva per le lamiere scintillanti delle auto bloccate sull’autostrada al ritorno dai weekend di quarant’anni fa, come per quelle immobilizzate oggi nel traffico di Roma; valeva per l’immagine di poliziotti con elmi e manganelli simili a guerrieri spaziali, così come per una lattina di Coca Cola che irradia la sua bella cromia rossa nella vita acquatica di uno stagno. Tutto è sotto gli occhi di tutti pare direi l’artista, nel senso che l’altra faccia del reale non è mai stata nascosta. Franco Mulas ha una sua visione del mondo, ed è anche persona dotata di molta ironia, più o meno amara, a seconda delle circostanze. Come pittore poteva godersi compiaciuto il successo delle espressioni raggiunte e fermarsi ad un qualche significativo traguardo del passato. Poteva trattenersi agli anni Ottanta, a quegli stupefacenti dipinti del ciclo “Finzioni” dove, parafrasando Vespignani, che gli fu grande amico – il sogno di una causa diventava il sogno di una cosa – di un’utopia persa per sempre, tra vascelli e antiche rovine, dissolti in bagliori e accensioni cromatiche della migliore scuola veneziana. Qualcuno, come si dice, ci avrebbe “campato” di rendita per altri venti anni. Invece lui non lo ha fatto, perche è così che riesce ad essere pittore, continuandò ad inventare e a modificare le forme dei suoi linguaggi, allo stesso modo in cui cambia e varia l’immagine della nostra esistenza, persino la nostra faccia (ed il pensiero corre ai suoi celebri “Identikit” della fine degli anni Settanta). L’arte è soprattutto ingegno e forza creati va, ci ricorda dunque Franco Mulas, che a sessantasette anni dipinge con la forza di un ventenne, di contro a i giovani artisti persi dietro alle “quotazioni di mercato” … E lo fa nel modo migliore, lavorando cioè per grandi insiemi di opere che aprono e chiudono !’impegno di una riflessione sulle vicende del tempo in cui viviamo. Dopo il ciclo “Big Burg”, dei primi anni Novanta, di un paesaggio dal colorito antinaturalistico, tagliato a fette quasi fosse un bene commestibile pronto all’uso, il pittore prosegue, in “Schegge”, la sua indagine sul concetto delle contaminazioni cromatiche e sull’artificialità del mondo, dove il colore è protagonista assoluto, prima più vischioso e fangoso poi offerto come materia incandescente. E arriviamo al presente, dove tutto riparte da uno stagno, luogo primigenio della nascita e della vita, simbolo di una natura ancestrale e scomposta, come le fronde delle canne palustri mosse dal vento. Penso al vecchio Monet che specchia la propria vita nel suo la ghetto di Giverny, segnando l’inizio di una moderna fisionomia del fare pittura. Lo stagno di Mulas non è un luogo sognato, ma conosciuto dal pittore, che ne osserva da tempo tutto ciò che vi si agita, come un insieme sfrenato di forze che crescono separatamente. Se in “Big Burg” !’indagine era rivolta al paesaggio come manifestazione dell’ibrido anonimo del nostro tempo, che il consumo – citando Venturi Ferraiolo – usura nell’esteticità, e anche vero che il paesaggio in quanto prodotto umano, veniva visto come portatore di una certa valenza etica, e nel con tempo, anche della possibilità di cambiaria attraverso azioni e pensieri diversi. Venuto meno lo spazio utopico, il passaggio che si coglie nelle opere attuali è questo: da “paesaggio artificiato” a “natura artificiata”, ben precisata da Raffaele Milani come – !’infinita connessione delle cose, !’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità dell’ esistenza temporale e spaziale. Dalla natura provengono all’artista delle forti suggestioni. L’idea stessa della contaminazione causata dall’azione insensata dell’uomo si mostra violenta nelle antinaturalistiche tinte, taglienti come schegge, accese quanto i neon della notte, con dei gialli così incandescenti che pare quasi di scottarsi al solo sfiorarli e dei magmi che piovono come meteoriti roventi. Ogni cosa appare come polverizzata, ridotta ad un panorama decadente non più di forme ma di frammenti. La materia pittorica che ha preso corpo dai fendenti delle spatola te, offerte sulla tavola con violenta gestualità, espande il suo colore ad olio come la nuance di certe stampe degli anni Settanta che smarginando la tinta dai bordi creavano uno strano iridescente effetto di moderno arcobaleno. All’improvviso, un nuovo vortice d’aria passa sullo stagno, e tutto abbraccia, cambia e rimescola. Variano i rapporti tra le forme e i colori, tra la superficie dell’acqua, specchio di un moderno Narciso e la sua profondità, che è anche il luogo delle cose che non conosci se non ti immergi. Si consumano tutte le distanze nell’attimo dell’accadere e del ricordo, dell’emozione tattile del vissuto ripercorso attraverso la pittura .

Maria Cristina Ricciardi, 2006