Lucio Barbera

LA SVOLTA DI FRANCO MULAS ARCHEOLOGO DEL FUTURO – “Gazzetta del sud”

C’è qualcosa di straniante nell’attuale fase pittorica di Franco Mulas (Roma1938) la cui mostra,è ospitatà nella galleria “Il Sagittario” di Messina dove è presentata da Aldo Gerbino cui si deve il testo in, catalogo. Questo “qualcosa” è dato dall’apparente contrasto tra la stesura pittorica e ciò che vien rappresentato; cioè tra il “modo di dire”, e il “detto”. L’immagine nasce dalla combinazione di spatola e di pennello e dei due strumenti sfrutta con sapienza le possibilità, sì che su una stesura generalmente piatta, come raschiata e lisciata (anche fisicamente, oltre che otticamente, questa così si presenta quasi come una pellicola) di tanto intanto esplode una concrezione materica, improvvisa come un bagliore, una luce sotterranea o anche una presenza fisica che agita e sconvolge la superficie. Ebbene questa immagine si presenta nella sua immobilità assoluta come marmorizzata, pietrificata per.sempre congelata.

Se questa è la stesura pittorica, che come si vedrà ha un preciso punto di avvio nell’ormai lunga vicenda del grande artista italiano e altrettanto nobili parentele con la storia dell’arte, più intricante appare ciò che Mulas vuole trasmettere. L’artista dopo avere confrontato fino alla seconda metà degli anni Settanta la sua coscienza, che. sempre si fa carico della realtà, con il quotidiano malessere individuale e collettivo, attraverso una pittura di lancinante (iper)realismo e di sconvolgente crudezza, a partire almeno dagli inizi degli anni Ottanta (e il riferimento è alla strepitosa serie. di dipinti sul tema dell’albero di Mondrian), ha iniziato a indagare la natura intesa non come immagine visiva, ma essa stessa come metafora della realtà. Dunque al di là di ogni tensione mimetica (che era stata straziante nella precedente fase, in cui era possibile rintracciare sia una attenzione iperrealista, sia una attenzione alla nuova oggettività tedesca) si assiste ad una duplice svolta nel percorso di Mulas: resta sempre il suo corpo a corpo con la realtà (lo strazio del mondo e dell’uomo), ma questa ora assume le forme segrete di una natura che di quello strazio diviene “paesaggio”.

Ma accanto a questo, proprio rifacendosi all’albero di Mondrian e compiendo un percorso inverso rispetto al grande olandese, l’artista comincia a ricostruire un proprio linguaggio che deve essere capace di percorrere in doppio senso il tragitto tra natura e pittura, fino alla loro fusione, senza però mai tradire l’urgenza delle cose da dire Sormonta, dunque, un’esigenza formale e linguistica che, quasi analizzando la linea analitica dell’arte (non come esiti ma come metodo) riflette su se stessa e trova i suoi punti di riferimento in Friedrich in Turner, in Previati e Boecklin, in Ernest e in Monet.

E se Mondrian, scarnifica l’albero fino alle ortogonali ortogonali della pura astrazione, Mulas intorno a quei rami fa nascere e crescere l’intera natura. Accanto al tronco, in una tensione visionaria, ma sempre tenuta sotto il controllo disciplinante del personalissimo codice pittorico, nascono piccole cascate, strane colline, e poi ancora percorsi immaginari e assolutamente fantastici cori navi di pietra (esse stesse ridotte alla inconsistenza del relitto perduto) che solcano il mare, rocce antropomorfiche che consentono visioni di incontri e di racconti, scene di una classicità ormai incendiata, ninfee di ghiaccio.

Sono ormai noti dipinti che fanno parte delle già storicizzate serie Finzioni e Big Burg con il quale l’artista, nel ridefinire il rapporto tra pittura, natura e storia, allenta la sua corda “visionaria”.

Ma proprio di recente, in quest’ultima produzione presente in mostra e che già si è annunciata nella bellissima grande mostra di Volterra, si avverte l’ulteriore slittamento nella pittura di Mulas. Utilizzando quella strumentazione straniante di cui si è detto l’artista quasi come un archeologo del futuro, si rivolge al sentimento della natura; senza nulla perdere della sua tensione che ora conosce soprattutto accenti poetici e lirici, mette in funzione la corda “saggia” che parimenti tiene e governa le redini della osservazione lenticolare, quelle della rigorosa costruzione pittorica e l’impeto, direi anche la viscerale passione di chi, da vero artista, del suo tempo si fa carico.

Ci si accosta così al “detto”, a ciò che pittoricamente viene rappresentato. Alcuni titoli dei dipinti ci possono essere d’aiuto a condizione che poi si riesca a dimenticarli affidandosi al testo pittorico: Il fiume, Segni nell’acqua, Riflessi, Il 20 maggio i girini perdono la coda. Eccolo il nuovo.paesaggio, naturale e concreto che l’artista assume a riferimento della metafora della cultura e del mondo.

Muore il secolo, sconciato, dalla fretta e dall’indifferenza, tutto trascorre in un vuoto spinto, in un convivere divenuto liquido come la scrittura digitale e virtuale come la navigazione computerizzata. Ecco, i sentimenti, gli stessi sensi, oltre che la ragione, tutto appare “Virtuale”, non solo a portata di un tasto, ma a quel tasto sacrificato, immolato come vittima senza senso, rifiuto senza futuro, reperto da dimenticare. Di questo la natura si fa simbolo, di ciò che giustamente Gerbino definisce “il grande strazio. del mondo” o “il canto dolente di un secolo” che muore.

È proprio in questa natura che l’artista “archeologo del futuro” si aggira con attenzione e commozíone, con la sua solita passione civile, e va scovando gocce d’acqua, ciuffi d’erba, frammenti di roccia, oggetti di uso comune, relitti, tutto ciò che sembra irrimediabilmente destinato alla perdita. Sono cose vecchie quanto il mondo quelle che Mulas pittoricamente raccoglie nel guscio della sua pittura appartengono all’uomo e al suo qui esistere. E quel guscio di pittura le raccoglie con dolcezza, quasi a preservarle da un imminente e globale naufragio cui indemenziati come siamo, allegramente siamo avviati.

Raccoglie cioè “cose” che a volte sorprendono per la loro precisione analitica, e a volte per la loro irresistibile forza evocatrice che vengono fissate in una immagine sospesa tra la definitiva dissolvenza e la loro annunciata apparizione.

Ed è qui che si spiega quel qualcosa di immediatamente straniante: la distanza tra un complesso e colto linguaggio che appare freddo come il ghiaccio prima che si sciolga e il ribollire vitalistico del pensiero che si fa natura, che ha l’incandescenza della lava prima. che essa si faccia pietra. Ma straniante, per di tutto, è che quella distanza non ci sia per nulla, superata proprio dalla grandezza della pittura.

Lucio Barbera, 1998