Duilio Morosini

“Paese Sera “

Ad un redattore di una nota rivista d’arte americana, che gli chiede di parlargli dei suoi esordi, lo scultore iperrealista John De Andrea dice testualmente: “ho cominciato con dei manichini, poi ho trovato delle strisce di gesso ed ho fasciato qualche povera ragazza all’Università del Colorado… ho fatto un mucchio di calchi ed ho anche ferito parecchi modelli, finché sono riuscito a fare bene tre personaggi…”

Franco Mulas, che include nel gruppo di opere recenti esposte alla Nuova Pesa anche un quadro già noto (Vernissage), dedicato al tema della inaugurazione di una mostra iperrealista, non poteva aver letto, a suo tempo, l’intervista perché non era stata ancora tradotta in Italia. Eppure è a quella sconcertante attestazione di irresponsabilità e non alle sculture di John De Andrea o di altri autori del genere che vien fatto di pensare, a proposito di una composizione come Vernissage. Perché il nudo maschile eretto, che Mulas colloca dentro il cerchio di luce proiettato da uno spot, su di una pedana circondata da “gente bene”, che assiste con divertita e scettica curiosità allo spettacolo, non vi rimanda certo alla anodina levigatezza ed alla fissità di espressione della scultura realizzata a partire da un calco; tormentata e scarnificata com’è vi fa pensare, al contrario, alle più crude espressioni dell’umiliazione dell’uomo, proprie di certi legni (di esecuzione “colta” o popolare che sia) del seicento spagnolo. Non vedo, del resto, come un artista potrebbe combattere il mimetismo di un altro artista scendendo sul suo stesso terreno. La “replica” è immaginabile come autonomo atto creativo, come personale proposta di responsabilizzazione dell’arte; non certo come intervento di polemica culturale, fatalmente destinato ad essere coinvolto con la sterilità che vorrebbe condannare.

Anche l’iperrealismo, movimento pieno di contraddizioni, ha i suoi “portatori di eterodossia”. Ma un Kanowitz non polemizza con Estes; esprime, implicitamente, la propria estraneità all’ottica speculare nella temperie della propria visione critica; cosi come, in tema di scultura, un Kienholtz non replice ai manichini dei vari John De Andrea con altri manichini, ma con la creatività delle proprie composizioni di gruppo concepite come scene immobilizzate di teatro politico.

E, infatti, per tornare al nostro caso, anche Mulas non persegue certo l’obiettivo di colpire una tendenza nei suoi esiti me nei suoi presupposti ideali ed anche – per non dire soprattutto – nei suoi riflessi su di un pubblico il quale identifica ogni sorta di manifestazione di agnosticismo con il proprio tedio di vivere, con la propria assenza di passioni.

La cosa riesce più che mai chiara là dove Mulas sottrae la sua pretestuale opera iperrealista all’ambiente della galleria d’arte per farne, con intenti ulteriormente dichiarati, il simbolo della reificazione dell’individuo: anzi, dati gli ovvi riferimenti alla storia dell’arte – cui s’è accennato – quello della moderna incarnazione dell’Ecce Homo…

Duilio Morosini, 1975